INTERVISTA Con il 2022 finisce un’epoca. Stefano Gianti, Swissquote: «L’Europa non corre più come prima. E nel 2023...»

Sara Bracchetti

4 Gennaio 2023 - 18:38

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Import-export, cambio euro-dollaro, inflazione, tassi di interesse, criptovalute, Cina: che cosa aspettarsi dall’anno appena cominciato? L’analisi economica dell’education manager di Swissquote Bank.

INTERVISTA Con il 2022 finisce un'epoca. Stefano Gianti, Swissquote: «L'Europa non corre più come prima. E nel 2023...»

Si chiude un (altro?) anno «epocale», segnato da un euro caduto molto in basso, un’inflazione salita tanto in alto, tassi di interesse al rialzo rapido, fallimenti importanti di società operative nella realtà delle criptovalute. L’ombra del Covid si fa più lontana, quella della guerra rimane in primo piano, in un 2023 troppo carico di punti interrogativi. Che ne sarà di tutto ciò che è stato? Chi perderà e chi si rafforzerà imparando dall’errore? Quale direzione prenderà l’economia, l’Europa, il futuro che allude alla tecnologia?
Domande che restano enigmi, in attesa che la verità si dispieghi; il resto sono solo previsioni di alto livello, quando a farle è Stefano Gianti: education manager per Swissquote Bank, leader mondiale nel trading online, ospite regolare di Cnbc, Sky Tg24 Business, Rai e Mediaset, network finanziari. Specializzato nell’analisi della situazione macroeconomica dei mercati e degli eventi che potrebbero influenzarli, prova a interpretare aspettative e tendenze e dice che, lo scorso anno, «abbiamo assistito a un cambio epocale in Europa. Per la prima volta la bilancia commerciale è stata disastrosa, l’euro ha sofferto decisamente ed è arrivato a perdere fin quasi il 20%, per recuperare solo nell’ultimo trimestre. Questo è il grande problema che ci portiamo ancora appresso e il grande punto interrogativo del 2023. Il fatto che la bilancia commerciale si sia deteriorata è qualcosa che non accadeva dal 1992».

Gianti, perché proprio adesso? Quali le cause e/o le analogie con il passato?
«La causa è una e molto semplice: l’aumento del prezzo dell’energia e delle materie prime. L’export è cresciuto, grazie a un’economia da sempre esportatrice per merito soprattutto di Germania e Italia; ma è cresciuto anche l’import, del 30% circa a fronte del 18% dell’export».

La debolezza dell’euro che ruolo ha avuto?
«Per tutto l’anno l’euro si è indebolito perché la politica delle banche centrali è stata diversa. Gli Stati Uniti hanno alzato i tassi, l’Europa no: il dollaro si è apprezzato e l’euro ha perso quasi senza sosta, passando dai massimi di febbraio, quando era intorno a 1,14 e sembra un’epoca fa, fino a scivolare allo 0,95. Anche questa discesa sotto la parità ha fatto sì che il 2022 possa definirsi un anno epocale. Il differenziale dei tassi di interesse è stato determinante. A questo vanno aggiunti i dati puramente macroeconomici, cioè il deprezzamento della bilancia commerciale: quando la bilancia commerciale peggiora, tutte le valute si indeboliscono. Questo è accaduto fino a tutto settembre».

Poi?
«Il quadro è migliorato un po’, grazie alla discesa dei prezzi delle materie prime e anche dell’energetico. Di recente, è stato inoltre approvato il price cap. Tutto ciò contribuisce a un miglioramento che è ancora in corso. La bilancia commerciale è in ripresa, le importazioni impattano meno e, di conseguenza, anche l’euro va meglio. Nell’ulimo trimestre si è apprezzato del 12% sul dollaro, il che non è poco».

Il 2023 ha qualche promessa in serbo?
«La bilancia commerciale è un grande punto di domanda per il 2023, perché la Germania non corre più come prima. L’export storico dell’Ue è dovuto in particolare alle performance di Germania e Italia; entrambe hanno sofferto nel corso del 2022 e pensare che da dicembre a gennaio la situazione cambi è impossibile. Anche perché la Germania, dopo l’uscita di scena della Merkel, non è più quella di una volta. Ragionando a tal proposito, manca anche la guida che c’era in passato. Macron ha preso piede, l’Italia ha perso il ruolo che poteva avere con Draghi. È un’Europa che si sta francesizzando».

Vuol dire che il 2023 non sarà molto diverso dal 2022?
«Sì. Il price cap può aiutare psicologicamante, ma i prezzi delle materie prime non sono ancora tornati ai livelli precedenti lo scoppio del conflitto. L’import avrà dunque sempre il suo peso. E se si pensa che le materie prime vengono pagate in dollari, si capisce come tutto questo conti».

I prezzi delle materie prime sono però in discesa. Qualche speranza c’è, non trova?
«Sicuramente. Il miglioramento è in essere, entriamo nel 2023 con un problema che esiste ancora, ma si è alleggerito».

Quando ce ne potremo liberare?
«Quando l’euro-dollaro tornerà ai valori di un anno fa, generando una situazione molto più proficua per l’importazione di prodotti energetici. Resta poi il conflitto in Ucraina».

Qualcuno vocifera che finirà presto, che le trattative sono in corso e il conflitto non arriverà a primavera. In tal caso che cosa cambierebbe?
«Al momento affrontiamo il problema delle tariffe di trasporto, dei prezzi dei container, della congestione al di fuori dei porti internazionali. Una situazione che è lievemente migliorata, ultimamente, ma che in tempi di pace potrebbe risolversi e portare i prezzi del settore energetico a livelli pre-pandemia. Ciò stimolerebbe la fiducia degli imprenditori, a beneficio dell’economia tutta. Nel 2022 la fiducia di imprenditori, investitori e consumatori è scesa e sta ancora perdendo punti. Se il conflitto dovesse finire, la fiducia riguadagnata potrebbe essere una spinta positiva».

E fermare la recessione?
«A mio avviso, nel 2023 la recession ci sarà, intesa come rallentamento dell’attività economica con lievi meno davanti ai numeri. Se la guerra in Ucraina si concludesse, potremmo però prevedere una recessione lievissima a inizio anno e invece un secondo, terzo e quarto trimestre con dei grandi più».

Poco fa lei ha citato il Covid, ex grande incognita che sta tornando a fare capolino. Pensiamo alla Cina: facciamo bene a preoccuparci?
«Possiamo dire che il Covid così come l’abbiamo conosciuto all’inizio ce lo siamo lasciati alle spalle. A causa sua la Cina, anche nel 2022, non è andata a pieno regime. Un cambio di politica potrebbe avere dunque un impatto enorme, in particolare riguardo a titoli azionari legati al lusso, alla cui spesa globale i cinesi contribuiscono per un 20%. Titoli come Ferragamo, Moncler, Burberry, Swatch sono ottimi candidati all’acquisto. Anche i titoli legati alle compagnie aeree e alla ristorazione potrebbero risultare avvantaggiati. Inoltre, sono da considerare i benefici per la politica interna cinese: l’allentamento delle restrizioni potrebbe ripristinare una parvenza ordinaria e rafforzare così l’economia e i consumi».

Una Cina fuori dal tunnel, a dispetto degli allarmismi di questi giorni?
«Il problema cinese rimane. Quest’anno gli indici sono scesi del 15-20%. Ripresa sì, ripresa no, in Borsa? Difficile dirlo. Alcuni settori, come i viaggi, la ristorazione, l’intrattenimento, registreranno potenzialmente un boom. L’economia cinese è però molto legata al settore immobiliare, che da solo dà circa il 40% delle entrate fiscali. Questo resta un grande punto di domanda».

La Cina è di nuovo alle prese con il Covid. Agli aeroporti tornano i tamponi obbligatori per chi proviene da lì. Misure esagerate o c’è davvero un problema che inciderà anche sui mercati?
«La vera notizia non è il Covid, ma la Cina che riapre. Il Covid c’è e il mondo ha paura, in Cina gli ospedali sono già al limite e con la riapertura delle frontiere i casi aumenteranno: ma non sarà più pandemia. D’altro canto, dal punto di vista macroeconomico il fatto che la produzione cinese risalga potrà generare un nuovo impulso alla domanda di materie prime. E questo avrà delle conseguenze: è possibile che l’inflazione torni a galoppare. Da un lato la discesa dei prezzi del settore energetico, dall’altro una domanda che, in salita, porta a un incremento generalizzato dei prezzi».

Un 2023 che si apre all’insegna dell’inflazione?
«L’inflazione è stata il grande tema del 2022 e lo sarà anche nel 2023. Ricordiamo che ci troviamo in un contesto dove le banche centrali hanno aumentato e aumenteranno ancora i tassi. La Federal Reserve ne farà sicuramente ancora due di 25 punti base. La Bce dovrà aumentare anche di più».

La Bce finora si è comportata in maniera corretta o poteva fare meglio?
«La Bce fa bene ad aumentare i tassi d’interesse. Non potrebbe comportarsi diversamente. Se non l’avesse fatto, avremmo visto l’euro precipitare di un altro 15% e toccare lo 0,90 sul dollaro. La Bce doveva e dovrà ancora aumentare i tassi».

Possiamo dire che forse è arrivata in ritardo?
«Il fatto che abbia aspettato fa parte delle modalità con cui la Bce è solita operare. Negli ultimi vent’anni, la politica della Bce è sempre stata dettata dalla Federal Reserve. Mentre la Bank of England tendeva a seguire quasi a ruota, la Bce provava a rimanere ferma. Nel contesto specifico del 2022, la Bce ha deciso di non intervenire subito semplicemente perché non aveva un’economia forte come quella statunitense. Il mercato del lavoro è completamente diverso: negli Stati Uniti c’è maggiore flessibilità, mentre in Europa gli imprenditori sono più restii ad assumere e il mercato del lavoro è molto più lento. La paura della recessione in una fase di ripresa ha vinto e la Bce non ha voluto accodarsi all’aumento così veloce dei tassi applicato dalla Fed».

Bene così?
«L’Europa ha accomodato la crescita economica. La differenza vera l’ha fatta poi l’andamento del cambio euro-dollaro e l’impatto che un dollaro così forte ha avuto sul settore dell’energetico. Dunque, effettivamente sì, forse la Bce avrebbe potuto essere più veloce. Eravamo però in un contesto di crescita ancora troppo blanda per un’azione più aggressiva. In Europa lo stato sociale è molto più importante, il mercato del lavoro è molto meno dinamico. Questo non significa che ci siano colpe dirette. A volte fa semplicemente più comodo vedere gli altri come si comportano e capire se sbagliano».

Dal mondo reale al mondo virtuale. Criptovalute, blockchain, metaverso, Nft: ci si lascia alle spalle un anno complicato, che cosa si troverà nel 2023?
«Swissquote ha sempre creduto alle criptovalute e l’anno scorso ha anche creato un Exchange. Le cripto hanno subito molto la politica restrittiva delle banche centrali. Si è notata una fortissima correlazione tra l’andamento delle Borse, del Nasdaq e del settore tecnologico in particolare, e l’andamento del Bitcoin. Se si vanno a sovrapporre i grafici, si vedono movimenti simili, con performance amplificate per le cripto».

La bancarotta Ftx come si spiega?
«Il problema sta nella regolamentazione. Molti altri settori sono stati regolamentati nel corso del tempo - e così sarà anche per le criptovalute. Anzi, episodi come questo accelereranno il percorso. Finora, però, non ci sono norme cui attenersi. Un intermediario finanziario riceve denaro; se decide di spostarlo su wallet, come è accaduto, ecco fatto. Alla fine si tratta di un problema di tutela dell’investitore. Con gli Exchange non si sa mai con certezza dove i soldi finiscano. In questo contesto, e nell’ambito di una crisi di liquidità come quella che si è verificata, si è generata una sorta di "corsa agli sportelli". Nessuna Banca centrale poteva intervenire, trattandosi di un ente privato. Il 2022 è stato effettivamente un anno difficile per le cripto, ma non è giusto guardare le cose solo da questa prospettiva».

Significa che non è finita: la blockchain e le criptovalute hanno ancora un futuro?
«Le cripto sono dei progetti, collegati a dei token. Quest’anno sia le cripto che il Nasdaq, legati entrambi alla tecnologia, sono scesi. Se si riprende il Nasdaq, si riprenderanno anche le cripto. Al di là di esse, parliamo però di una tecnologia, come quella della blockchain, che non morirà mai. Fa già parte del nostro arsenale. Ci vorrà ancora molto tempo, ma sicuramente il settore dei pagamenti verrà rivoluzionato, diciamo nei prossimi quindici anni».

Il 2023 potrà essere l’anno dell’inizio del riscatto?
«Diciamo che l’aumento dei tassi d’interesse è un disincentivo a investire e questa situazione rallenterà lo sviluppo della blockchain. Quando c’è meno liquidità in circolazione, sono meno gli investimenti possibili; il grande vantaggio è che, sul lungo periodo, sopravvivono i progetti migliori. Nei primi anni c’è stata troppa euforia: la gente metteva soldi su ogni criptovaluta, finanziando anche progetti poco validi. Un periodo restrittivo non potrà fare che bene. I tempi della blockchain verranno dilatati, ma non c’è dubbio: rimarrà una realtà nel nostro futuro».

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