Crac Svb: quali conseguenze sulle politiche monetarie? L’analisi di Federico Corbari ed Edoardo Beretta

Chiara De Carli

14/03/2023

11/04/2023 - 10:23

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L’evento, a soli 15 anni di distanza dall’ultima crisi finanziaria, deve indurre una riflessione sulla complessità della gestione centralizzata e discrezionale delle banche, soprattutto di oltreoceano.

Crac Svb: quali conseguenze sulle politiche monetarie? L'analisi di Federico Corbari ed Edoardo Beretta

Il fallimento delle banche regionali Silicon Valley Bank e Signature Bank ha letteralmente scosso il mondo della finanza. Anche se non è ancora chiaro se ci troviamo di fronte al temutissimo campanello d’allarme che anticipa una crisi finanziaria.
Gli investitori, intanto, si domandano se da qui a sei mesi saranno travolti da un effetto Lehman. A riguardo era intervenuto il presidente americano Joe Biden, rassicurando i contribuenti che non saranno protagonisti di alcuna perdita, mettendo la sua parola a garanzia di un sistema bancario solido.

Coinvolto direttamente il settore tecnologico

Come è noto, il crollo di Svb ha coinvolto prevalentemente le startup. «Molte di quelle che avevano conti presso la banca - ci spiega Federico Corbari analista finanziario e Ceo di Algo Capital - dovranno trovare il modo di far fronte a costi come salaries e cash flow nel breve periodo. Inoltre, quelle sostenute direttamente da Svb dovranno sperare in un’acquisizione: se nessuno comprerà i loro asset e/o investments, avranno problemi di solvibilità anche nel medio termine. Ad ogni modo non credo Svb sostenesse un numero sufficiente di progetti da mettere in crisi un settore in così grande crescita».

La fragilità della gestione centralizzata

Il fallimento di Silvergate è invece «una prova della fragilità della gestione centralizzata di una società finanziaria senza sufficienti garanzie e coperture e, molto probabilmente - aggiunge il Ceo di Algo Capital - , senza adeguati controlli e governance, come ad esempio è successo con FTX. Lo potremo constatare solo tra qualche tempo. Silvergate non ha nulla a che vedere con la tecnologia Blockchain, è una banca tradizionale con problematiche legate alla finanza tradizionale che fornisce servizi a società legate al mercato dei digital assets».
«Nel 2022 - puntualizza Corbari - il mondo dei digital asset ha subito degli shock strutturali che hanno anche ripulito il sistema da moltissimi player che non portavano un valore intrinseco reale. Tutte le nuove tecnologie passano da un periodo di grande crisi, in cui solo la vera essenza della tecnologia stessa sopravvive, è la regola del mercato. Al contrario un sistema bancario che dà segni di sofferenza a distanza di soli 15 anni dall’ultima crisi, deve far riflettere sulla complessità della gestione centralizzata e discrezionale delle banche e della finanza centralizzata. Il mercato dei digital asset potrebbe offrire nel lungo termine soluzioni neutrali che potrebbero aiutare il sistema finanziario a regolare meglio le proprie attività».

Effetto domino scampato?

Corbari evidenzia poi che le banche coinvolte dal fallimento non sono classificate come «T1» né sono «definibili come sistematiche». Il loro crac «rappresenta un chiaro segnale che lo scostamento del costo del denaro in così breve tempo, crea problemi al sistema e rende gli eventi, dapprima facilmente gestibili, problematici e complessi». Ma l’intervento governativo dispiegato già domenica «ha bloccato il panico e l’effetto domino. Se non saranno coinvolte altre banche, o grandi banche, credo che l’intervento del Governo USA sarà sufficiente. Tuttavia potrebbe esserci una ripercussione sulle politiche monetarie».

Qualcosa si è rotto: cosa farà la Fed?

La palla quindi passa in mano alla Federal Reserve (Fed) che fino a settimana scorsa sembrava essere decisa a non mollare la presa nella sua lotta contro l’inflazione. Tanto è vero che l’aumento previsto per il 23 marzo si dava a 50 punti base, dal range 4,50-4,75% a cui sono stati portati a febbraio.
Dunque, da un lato ora i mercati si aspettano che la banca centrale continui i suoi sforzi per combattere l’inflazione, con un aumento più contenuto di 25 punti base. Dall’altro, c’è chi come Goldman Sachs auspica che la Fed rinunci all’opportunità di alzare i tassi la prossima settimana, per dare tempo agli istituti finanziari di riprendersi. La saggezza collettiva di Wall Street recita infatti che la Federal Reserve continui ad aumentare i tassi di interesse fino al momento in cui non si rompe qualcosa. E ora, qualcosa si è rotto per davvero: settimana scorsa si è verificato il secondo e il terzo fallimento più grande di sempre. Un avvenimento significativamente importante che dovrebbe convincere i funzionari della Fed ad allentare la presa o, per lo meno, a prendersi una pausa].

Di quanto aumenteranno i tassi le banche centrali?

Viene allora da chiedersi cosa faranno le altre banche centrali. Prima fra tutte quella europea che si riunirà questo giovedì e successivamente quella svizzera, il cui vertice sulla politica monetaria è in programma per il 23 marzo, all’indomani della decisione che prenderà la Fed.
«È difficile stimare, se la Banca nazionale svizzera (Bns) adatterà il tasso guida con meno vigore di quanto finora ventilato - afferma Edoardo Beretta, professore titolare della Facoltà di scienze economiche dell’Usi e professore aggregato alla Franklin University Switzerland -. Molto dipenderà dalle decisioni della Federal Reserve e della Bce, che forniranno un segnale su come vedono gli eventi bancari americani per la congiuntura economica e l’andamento del tasso d’inflazione. Certamente, la Svizzera ha dal punto di vista monetario maggiori margini d’intervento rispetto agli Usa e all’Eurozona dove i tassi di riferimento sono ben maggiori».
L’economista di Credit Suisse, Maxime Botteron, qualche giorno fa aveva pronosticato un aumento addirittura di 75pb che porterebbe il tasso guida dall’attuale 1% all’1,75%, a causa dell’inflazione che in gennaio e febbraio è tornata a spingere.

Lunedì nero per la piazza di Zurigo

Il fallimento delle banche regionali statunitensi si è fatto sentire anche in Svizzera nella giornata di lunedì. Le quotazioni dei principali istituti elvetici hanno portato lo SMI a chiudere in ribasso dell’1,25%. E tornate a salire solamente nel pomeriggio di martedì, dopo la diffusione da parte di Washington dei dati sull’inflazione Usa. Si prospetta ad ogni modo una settimana contrastata, in cui le banche svizzere sono chiamate ad affrontare questi giorni con «un’attenta “cernita” all’interno dei propri bilanci e portafogli», esaminando «se vi siano attività direttamente “toccate” dal fallimento della Silicon Valley Bank. Per le conseguenze indirette, fra cui il loro andamento sui listini azionari, si può fare relativamente poco oltre ad un lavoro di comunicazione efficace e rassicurante». La ricetta per «assicurarsi di fronte a perdite improvvise è storicamente sempre lo stesso: non sovra-esporsi a rischi di crisi di liquidità e ragionare mai “al limite”, bensì sempre come se il “vento”, condizionato da tassi d’interesse e crescita economica, possa cambiare repentinamente».

No agli allarmismi

Guardando agli investitori per Beretta è da evitare il «fenomeno di cosiddette “aspettative autorealizzanti”, in cui gli investitori contribuiscono paradossalmente con il loro comportamento a far sì che l’evento temuto, quale per esempio ulteriori fallimenti bancari, divengano realtà. Il fatto che, dopo la crisi economico-finanziaria globale del 2008-9, siano ancora gli Usa all’origine di turbolenze finanziarie oltreoceano rappresenta certamente un segnale utile per gli investitori esteri su come meglio bilanciare il loro livello di rischio in prospettiva».

Listini in recupero

Nel frattempo a New York gli scambi sono stati avviati e gli investitori sembrano aver ritrovato la fiducia, grazie alle mosse del governo e alle buone notizie date dal tasso d’inflazione di febbraio. Il Dow Jones, a mezz’ora dall’apertura, sta recuperando l’1,24%, l’S&P 500 l’1,82% e l’osservato speciale Nasdaq è in rally al 2,04%.

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