INTERVISTA Soft skill e mercati in crisi, Cocco: «Il successo? Non basta "sapere", bisogna imparare a comportarsi»

Sara Bracchetti

22/10/2022

10/11/2022 - 17:02

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Le conoscenze professionali non sono sufficienti: l’85% dei risultati dipende dalle competenze trasversali. Ma che cosa sono? Come si attivano? Gian Carlo Cocco, imprenditore e docente universitario, prova a fare chiarezza.

INTERVISTA Soft skill e mercati in crisi, Cocco: «Il successo? Non basta "sapere", bisogna imparare a comportarsi»

Si dice che gran parte dei buoni risultati sul lavoro da esse dipenda; anche se poi viene difficile capire di che cosa si tratti esattamente. Le chiamano soft skills, alias competenze trasversali; ciò che c’è e non si può certificare, che esiste e conta sopra ogni misura ma passa inosservato all’occhio nudo di quanti si fermano ad ammirare i bei titoli di studio. Eppure trovare una definizione, al di là di una traduzione dall’inglese all’italiano che poco aiuta i chiarimenti, è ancora impresa ardua. La confusione regna, in mezzo al dato di fatto: secondo gli studi, vedi Stanford Research International e Mellon Foundation, addirittura l’85% della carriera si deve a capacità che ancora restano nel limbo delle intuizioni di un mondo che non riesce bene a decifrarle.
Un gran peccato: ecco perché Gian Carlo Cocco ha deciso di provare di dissipare un po’ la confusione e spiegare quel che sono in un libro. Il titolo, "23 soft skill strategiche", segnala da subito l’intento didascalico; un sottotitolo eloquente, "Per valorizzare il capitale professionale" , la ragione per cui è necessario averne somma cura. Analisi, flessibilità, programmazione, gestione dei collaboratori: solo esempi di una realtà ampia di «competenze comportamentali che trovano collocazione in quattro aree del cervello umano», spiega Cocco, già dirigente d’azienda e imprenditore nella consulenza all’impresa, docente alla facoltà di Economia dell’università e-Campus per i corsi “Neuromanagement” ed “Economia del capitale umano”, autore di diversi testi dedicati nonché attuale presidente della Time to Mind SA, società internazionale che gestisce una piattaforma telematica di assessment online e potenziamento soft skill multilingue.
Da tempo residente in Ticino, presenterà lunedì 24 ottobre a Lugano l’ultimo suo lavoro, dalle 17.45 al Lac per un evento che vuole «offrire un valido contributo per la sopravvivenza professionale sia personale, sia dei collaboratori e colleghi, ma anche una proposta operativa per la valorizzazione dei giovani per aiutarli a incrementare un patrimonio comportamentale ancora inespresso: ciò per evitare che il loro ingresso nel mondo del lavoro sia un “percorso a ostacoli” difficile, dispendioso». Tanto più in questo momento di turbolenza dei mercati, citata a dare un senso a una tavola rotonda che, assieme ai nomi illustri di Gianluca Colombo, decano e professore dell’Usi e Andrea Gehri, presidente della Camera di Commercio del Canton Ticino, nonché Adrian Weiss e Stefano Devecchi Bellini, presidente e vicepresidente Fati (Forum Associazioni Ticinesi), aspira a chiarire come le soft skill sianno indispensabili a lasciarsi alle spalle questa «tempesta perfetta».

Professore, farne un libro non è in un certo senso una resa delle armi: la dimostrazione che se ne parla tanto, da tanto tempo, e ancora non fanno parte del nostro mondo, del nostro quotidiano?
«Se ne parla da molto, ma in modo scorretto. Dietro a questo termine viene messo di tutto, perfino i valori, i tratti del carattere. Le soft skill sono qualcosa di differente. Sono competenze comportamentali. Mi spiego. Quando parliamo di competenze, parliamo di qualcosa che è costitutito da due aspetti. Da un lato, le conoscenze, il sapere; dall’altro, la loro applicazione, l’esperienza. Questo è il nostro bagaglio professionale. Per essere utilizzato, continuando la metafora, abbiamo bisogno di un trolley, cioè un insieme di comportamenti efficaci. Il bagaglio di conoscenze da solo non basta, se non so applicare, organizzare, programmare e arrivare in questo modo al risultato previsto».

Eppure, se solo pensiamo alla scuola, ci accorgiamo che una mera trasmissione di conoscenze è quasi attività esclusiva. Forse l’errore comincia da lì?
«Ahinoi, la scuola, atenei compresi, si concentra solo su di una faccia della medaglia. Questo atteggiamento risale a una tradizione dell’insegnamento che punta sui contenuti, alla quale si sta aggiungendo negli ultimi tempi un abbassamento dei parametri. La diffusione della digitalizzazione non aiuta. È in atto una crisi di valori e di cultura, segno della crisi del tempo. Ora: le scuola nascono in epoca antica come insegnamento del sapere. Quanto più ampio, tanto meglio. Il sapere, però, è adeguato in un contesto stabile, non in un contesto turbolento. Fino a pochi anni fa, per esempio, chi entrava in un’azienda vi rimaneva per la vita. Oggi tutto è in evoluzione rapida. Ecco da dove nasce la necessità delle soft skill. Le soft skill, i comportamenti efficaci, sono stabili nel tempo. La capacità di comunicazione o di organizzazione è la medesima oggi come lo era in epoca dell’antica Roma, a differenza di un sapere che ha bisogno di aggiornarsi ai tempi, alle scoperte, alle innovazioni tecnologiche».

Perché dunque vengono trasurate?
«Sono state finora presentate con superficialità. Il modello delle soft skill, delle competenze, è stato cavalcato senza la consapevolezza di ciò di cui si parlava, con grande pressapochismo e confusione. Prendiamo la motivazione, per esempio. La motivazione non è una soft skill, non è una competenza. È una spinta. L’onestà: non è una soft skill. Non capire o non tenere conto di quali sono le soft skill è dannoso. Ecco perché ho sentito il bisogno di organizzarle in un libro».

Si sente un profeta nel deserto?
«Ultimamente è aumentata l’attenzione che numerosi corsi destinati a manager di alto livello riservano a temi legati alle soft skill, quali l’empatia, la gestione delle emozioni e dei conflitti, la creatività, la capacità di collaborare, comunicare, gestire i collaboratori. Questi temi sono ormai oggetto anche di MBA e dottorati di ricerca. L’idea che prende forza è che siano assolutamente indispensabili per il successo aziendale e, di converso, la loro carenza crei situazioni difficili».

C’è chi crede che siano solo un modo per compensare quello che davvero conta e non si possiede. Non sono abbastanza bravo, non sono abbastanza colto: rimedio con le soft skill.
«È il modello di Pulcinella. Anzitutto, le conoscenze devono essere acquisite con un processo basato sull’impegno e devono essere mantenute nel tempo, pena una mancanza di competenze dilagante. Ma perché poi, anche quando si è in possesso dei contenuti, ci si sente comunque inadeguati? Perché quando, freschi di università e di sapere, si arriva nel mondo del lavoro, ci si sente dei pulcini bagnati?».

Perché?
«Perché il bagaglio di conoscenze resta inattivo se non è possibile integrarlo con altre capacità che completano la professionalità e fanno in modo che il sapere diventi valore aggiunto. Se manca la pratica, mancano quei meccanismi comportamentali capaci di attivare il sapere. Per questo è importante far capire che cosa sono le competenze comportamentali ed evitare di confonderle con ciò che non sono».

Che cosa sono e, soprattutto, che cosa non sono?
«Anzitutto, la personalità non ha niente a che vedere con le competenze comportamentali. Il tema della personalità nasce in un contesto clinico e serve a stabilire dei tratti, non dei comportamenti efficaci. Pensiamo al pregiudizio secondo cui le persone introverse non saranno mai dei buoni venditori: è solo uno stereotipo. Un venditore in ambiti particolari, per esempio nel campo medico-scientifico, potrà ottenere ottimi risultati a prescindere dal carattere introverso».

La personalità non è una soft skill. Il nostro modo di essere può però penalizzarci o incidere, determinando ciò verso cui siamo più o meno portati?
«L’analisi della personalità nasce da un’ipotesi descrittiva finalizzata a stabilire delle tendenze. È un’etichetta, basata su modelli statici che attingono alla psicologia o anche alla filosofia. Il collerico, il sanguigno: sono sempre là. Ma sono definizioni, basate su presupposti che non evolvono e che provano a indicare come reagiremo a una situazione. Il comportamento, però, può variare a seconda del contesto. Collocata in due contesti differenti, una persona non risponde allo stesso modo. Le soft skill sono altro, da rilevare con oggettività e metodo sperimentale. Fare una verifica delle proprie soft skill è fondamentale per lavorare su di esse e puntare su quelle più congegnali, anche nelle scelte professionali. Non serve averle tutte al massimo livello».

Le soft skill hanno base nel cervello. Possiamo dire che sono innate?
«Tutta la questione ha origine a partire dagli sviluppi delle neuroscienze. Nasciamo con delle predisposizioni, che però poi si sviluppano solo se ricevono i giusti stimoli ambientali. Pensiamo a Mozart e alla sua predisposizione musicale: Mozart non sarebbe diventato ciò che è, se non avesse avuto il padre che aveva».

La scienza però ci dice che gli individui hanno un’attitudine chi più olistica, chi più logica, basata proprio sulla struttura emisferica del cervello dove le soft skill trovano origine. Questo non limita la possibilità delle soft skill?
«Attenzione, la predisposizione non è solo genetica: è aiutata dal fatto genetico. Mozart è stato un genio della musica, ma non lo sarebbe mai diventato se il padre non gli avesse insegnato il pentagramma. I meccanismi sono fondamentali. Certo, l’ideale è coltivare una nostra propensione; lavorare con maggiore frequenza sui comportamenti che ci trovano più efficaci. Oltre alla predisposizione, è fondamentale il campo di attività. Per questo è importante fare un assessment, una verifica delle nostre soft skill, anche per indirizzare le persone ai ruoli più confacenti. Capire quali sono le soft skill che ci appartengono diventa strategico».

Ci sono soft skill più importanti di altre? O è solo una questione personale?
«Esatto, dipende dalle persone. Le soft skill, inoltre, vanno declinate. È importante capire come si sviluppano. La negoziazione, per esempio, è fatta di tre fasi. Conoscere i riscontri in ciascuna di esse può aiutare a capire se e dove c’è più bisogno di agire. Poi, però, è necessario fare i conti con due variabili. Perché, mentre i comportamenti restano invariati nel tempo, estranei a evoluzioni genetiche, il sistema di valori muta. Una seconda variabile è l’incapacità sociale generata dal mondo digitale e da tutti i suoi limiti. Platone diceva che l’essere umano è un animale sociale: a questo stiamo abdicando. Bisogna prendere atto dell’importanza delle soft skill, in un mondo caratterizzato oggi da una sorta di autismo tendenziale, fatto di rapporti con gli schermi invece che con gli esseri umani».

Sui mercati e sul mondo professionale, che parte hanno queste variabili?
«I manager di oggi si muovoo come bandieruole, privi di capacità di focalizzazione, distratti dalle sollecitazioni. Questa è una infantilizzazione. A dieci anni, è naturale non trovare concentrazione: si è distratti da un mondo che si sta scoprendo. Per gli adulti, però, è una regressione. Secondo l’analisi di Daniel Goleman, si perde la facoltà di concentrazione e la capacità di definire le priorità. Viene meno una visione prospettica sulla realtà. Lo vediamo nelle sanzioni seguite alla guerra in Ucraina, per esempio. Che cosa ci stanno portando? Dove ci stanno portando? Da questo punto di vista, nei momenti di grande difficoltà le soft skill diventano un’ancora di salvezza per poter continuare a navigare».

Siamo dunque in una fase storica in cui abbiamo più bisogno di soft skill?
«Sì. Oggi siamo nel mezzo di un processo di esaltazione dei monopoli. Amazon, Google: abbiamo a che fare con strutture ultranazionalistiche, i cui fattutati sfidano il Pil del mondo, e senza neanche ricavare il beneficio del pagamento delle tasse. Eppure nel campo dell’economia, basato sulle leggi della domanda e dell’offerta, il principio guida è sempre stato quello di combattere le aggregazioni. L’unica via di salvezza è una fortificazione delle soft skill».

Quali?
«Le soft skill si dividono in quattro aree del cervello: l’area delle soft skill cognitive, cioè analisi e soluzione dei problemi; l’area delle soft skill gestionali e innovative, come l’orientamento ai risultati e la decisione; quella dei processi operativi, che comprende programmazione, organizzazione, controllo e determinazione; quella delle soft skill relazionali ed emozionali, fra cui lavoro di gruppo, gestione del team, comunicazione, leadership, orientamento alla relazione. Io ne ho inidividuate 23, esemplificate con il racconto dell’esperienza di un personaggio emblematico. Un esempio, l’iniziativa: il protagonista è un colonnello russo che ha scongiurato la fine del mondo, intuendo che l’aggressione atomica degli Stati Uniti era un errore del sistema informatico e non una realtà in corso. Come mai, pensò, l’America dovrebbe inviare contro di noi solo cinque missili? E fermò la risposta con un’iniziativa fantasmagorica».

Finora abbiamo solo parlato bene delle soft skill. Non c’è però il rischio di usarle male?
«Certamente. Le soft skill sono facoltà neutre. Esistono anche i valori. Nessuno mette in dubbio che Al Capone, Totò Riina o i dittatori del passato avessero eccellenti soft skill».

Dunque è la combinazione soft skill - sistema di valori a far paura?
«Il sistema di valori non è assoluto e stabile. Pensiamo all’onestà nel sistema bancario, su cui si fanno perfino degli assessment, senza capire che i valori non possono essere individuabili una volta per tutte. Una dipendente riconosciuta per la sua assoluta onestà, se si trovasse dinnanzi a qualcuno che le chiede di comportarsi in maniera disonesta dopo averle rapito il figlio, che cosa farebbe?»

Professore, dalle soft skill dobbiamo difenderci?
«Dipende dalla matrice. C’è un bel libro dell’economista Carlo Cipolla che distingue le persone in quattro tipologie comportamentali: quelle che fanno il proprio interesse e il bene degli altri, quelle che fanno il bene degli altri e il proprio disinteresse, quelle che fanno il proprio interesse a svantaggio degli altri e quelle che agiscono a svantaggio di tutti, loro stessi compresi. Questi ultimi sono i cretini. Ebbene, un mio professore universitario ci metteva in guardia dicendo che, nel nostro futuro professionale, avremmo potuto incontrare dei disonesti, ma saremmo stati in grado di rispondere ai loro tentativi mettendo in atto le nostre capacità. Stessa cosa al cospetto dei cretini. Al cospetto invece dei disonesti cretini, ci diceva, scappate».

Consigli per imparare le soft skill - e imparare a usarle bene?
«Anzitutto, chiariamo: ce le abbiamo tutti e tutte. Ciascuno è in grado di esprimere qualunque tipo di comportamento. Si tratta di stabilire in che cosa consistono le soft skill e di rappresentarle in modo concreto. Nel mio libro, ogni soft skill viene rappresentata su sette passaggi. Facciamo l’esempio dell’orientamento al risultato, una soft skill che è fatta di continuità, reattività e rispetto degli standard. Da un’analisi di questi elementi, siamo in grado di individuare nel nostro comportamento quali sono i punti più elevati e dove invece dobbiamo agire se per noi quella soft skill è strategica. Può essere, per esempio, che siamo un po’ più portati alla rinuncia davanti alle difficoltà: è lì che dobbiamo lavorare. Oppure tendiamo ad annoiarci: dobbiamo allenare la nostra determinazione. Senza poi dimenticare che tutto questo serve non solo al risultato, ma a operare in modo piacevole. Esiste una correlazione diretta tra competenza, anche comportamentale, e gusto di lavorare. Difficilmente le persone competenti sono demotivate».

Il piacere è alla base del successo personale e professionale?
«Attenzione però. C’è un altro elemento che purtroppo sta andando in forte crisi. Il gusto, il piacere delle azioni deriva dall’impegno e dalla sofferenza patita per raggiungere un certo risultato. Invece oggi siamo entrati nel parossismo ludico. Servono altri meccanismi, che alla fine sono anche premianti per se stessi. Una cosa di cui soffro è che oggi le persone non sono portate a incrementare le soft skill strategiche per la loro sopravvivenza. È vero che ciascuno ha delle predisposizioni, ma è vero anche che vanno allenate. Ripeto: se non ci fosse stato papà Leopold, Mozart magari avrebbe vissuto in maniera più tranquilla, ma noi non godremmo oggi delle sue sinfonie. Dobbiamo ritrovare il gusto del risultato, la soddisfazione che deriva dal mettere in atto un comportamento».

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