INTERVISTA Consulenti a 200mila franchi di stipendio, sogno o miraggio? «Solo uno su cento ce la fa, vi spiego perché»

Sara Bracchetti

26 Aprile 2022 - 11:09

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Al via un reclutamento massiccio: non servono qualifiche specifiche, ma capacità di problem solving, determinazione e attitudine al successo. Ma essere scelti è difficilissimo. Kobus, già selezionatore per McKinsey: «Passa non chi aspira ai soldi, ma alla leadership».

INTERVISTA Consulenti a 200mila franchi di stipendio, sogno o miraggio? «Solo uno su cento ce la fa, vi spiego perché»

Chi immagina per sé un futuro come consulente di gestione, non ha di che perdere tempo. È il momento: nei Paesi di lingua tedesca è in corso uno dei più massicci reclutamenti degli ultimi tempi. Anche questa è eredità del Covid, che, mettendo in discussione ogni esistenza adesso pronta a ripensare il proprio senso e ad aprirsi a orizzonti differenti dal passato, ha lasciato un bisogno disperato di nuovi dipendenti in grandi società come McKinsey, Boston Consulting Group, Bain. Germania, Austria, Svizzera: le prime due sono in cerca di un migliaio di persone, la terza di 350; Capgemini dovrebbe arrivare a 2800. Candidati permettendo.

I precedenti nel 2018 e 2019: 99% respinto

Già, perché venire selezionati non è poi così scontato come sembra. Uno stipendio generoso, da 200mila franchi e oltre; una carriera di quelle che si invidiano, chiamati a lasciare un segno positivo nelle organizzazioni pubbliche o private e a migliorare le loro prestazioni con opportune strategie e l’arte del problem solving. Un’ambizione ragionata e ragionevole dunque per tanti giovani in cerca di una posizione bella nel loro mondo che comincia. Eppure, forse anche per questo, la possibilità di entrare nel circuito si aggira attorno a un misero 1%. Nel 2018 e nel 2019, tanto per fare un esempio, McKinsey reclutò 8mila individui a livello globale. Le candidature erano state 800mila.

Non colloquio, ma simulazione di realtà

Asticella sempre più alta, a illudere giovani in cerca di futuro? Non proprio, secondo Jörn Kobus, che per sei anni ha fatto questo di mestiere, fino al 2019 per McKinsey: tenere colloqui, mettere alla prova candidati e accantonare aspirazioni fuori luogo. Fermati subito, lì agli inizi, a causa di un equivoco clamoroso, racconta: sottovalutare la fase di reclutamento, che in fondo altro non è che una prova simulata di quello che dovrebbero essere chiamati a fare per mestiere. Sbagliare, riflette Kobus, è semplicemente dimostrare che, qualora assunti, non si occuperebbe il giusto posto.

Prepararsi a un format speciale

Rinunciare dunque, già in partenza? Altro sbaglio. Piuttosto, presentarsi preparati: pare ovvio, ma è invece complicato. «I colloqui sono diversi, molto diversi, da quelli normali - spiega Kobus - Il format anzitutto è speciale: bisogna analizzare un “case study”, discuterlo in maniera approfondita. Si affrontano diversi step con più interlocutori, di norma consulenti di grande successo. Solo una percentuale bassissima riesce a superare tutti gli stage. Ma il problema non è nell’insufficienza di qualifiche».

Qualsiasi background è quello giusto

Tutt’altro, assicura Kobus. Ad andare nel profondo, anzi, una qualifica precisa neanche serve. «C’è un grande equivoco di fondo: credere che servano competenze specifiche per occupare una posizione di consulenza del top management. Invece non c’è un percorso unico per arrivare lì, un background predefinito. Si può essere ingegneri, farmacisti, medici, fisici: non è richiesta una conoscenza aprioristica di contenuti, ma un’attitudine a risolvere i problemi complessi, una capacità di porre le domande giuste per sviluppare le conoscenze utili allo scopo».

Stop agli scolari che imparano a memoria

Il punto, secondo Kobus, è appunto questo: che non si ha un’idea precisa di quel che si stia per affrontare. Finisce che ci si presenta come scolaretti che imparano a memoria la lezione, non richiesta. « Memorizzare eventuali schede informative del settore non è utile. Nessuno è interessato a candidati che si limitano a citare fatti mandati a memoria, magari già sentiti decine di altre volte da precedenti candidati che avevano studiato le stesse cose ».

Il selezionatore «è un amico»

Respinti, non resta a volte che recriminare, contro la cattiveria dell’intervistatore che decide il tuo destino come fossi un numero. «Non è vero. In realtà chi fa il colloquio ai candidati desidera che facciano bene. Non è un nemico, ha tutto l’interesse affinché superino il colloquio e a dare supporto a tal fine. Non vuole porre sfide e ostacoli, mettere in difficoltà; quando ripete la stessa domanda più volte, è per dare l’opportunità di migliorare la risposta e mostrare le capacità. Ma è difficile riuscirci, con chi non è consapevole di ciò che gli è richiesto».

Reclutamento in 3 fasi

In che cosa consiste, dunque, la richiesta? «Anzitutto, bisogna realizzare che il reclutamento è fatto di tre passaggi, non solo di un’intervista: prima c’è la candidatura scritta, poi un pre-test e solo in ultimo il colloquio vero e proprio. Non serve a niente prepararsi ad esso se ci si ferma prima. Niente va preso sotto gamba».

La candidatura scritta: rilevante e concisa

Nemmeno la presentazione scritta è un pro-forma, utile a dare un’impressione superficiale: se fatta male, può bloccare l’iter sul nascere. «Non basta elencare fatti - spiega Kobus - Bisogna saperlo fare nel modo giusto: indicare le esperienze rilevanti, i risultati degni di nota, in maniera concisa. Ogni successo conseguito può essere utile, nei campi più disparati: la scuola, lo sport, la musica. Tutto può dimostrare chi sei e che hai le carte giuste». Ciò che si valuta è il percorso che conduce al fine, la tenacia nel perseguirlo. «Purtroppo, spesso i candidati spesso si limitano a dire ciò che hanno fatto, non a esaminare e descrivere i risultati, a darne un’interpretazione».

Il pre-test: un gioco, ma non da ragazzi

Chi ce la fa, si ritrova davanti a un computer. «Si tratta di test preliminari che sono stati implementati parecchio ultimamente. Si usano dei software per capire come il candidato sappia reagire a un evento più o meno imprevisto e reggere la situazione. Semplificando: ci si trova davanti a un chatbot o a un gioco. L’obiettivo è esaminare l’approccio alle domande che vengono poste, la capacità di distinguersi dagli altri».

Il colloquio: ora è anche online

Ed ecco che si arriva alle giornate di colloquio, che il Coronavirus ha costretto ad aggiornare. «Adesso si fanno anche online. Solo il tempo ci dirà se si tratta di una procedura destinata a rimanere». È proprio nel momento in cui ci si illude che oramai è fatta, dice Kobus, che invece si commette l’errore imperdonabile. «Cercare su internet casi di studio e memorizzarli con la speranza che uno di essi venga chiesto è l’errore più grande. Così come recitare descrizioni di se stessi che non dicono niente di utile sulle qualità di cui la società è in cerca».

Il ragionamento conta più della risposta

Al selezionatore, che probabilmente avrà ascoltato la stessa lezioncina decine di volte, bastano un paio di minuti per capire che si trova davanti a uno scolaro. «Ma questo non è un esame universitario. Nessuno cerca dei computer, delle persone che riportano alla perfezione una lezione, ma consulenti in grado di affrontare analiticamente un problema per come si presenta in quel momento. E ciò che viene valutata non è la risposta, ma il processo, il percorso che porta il candidato alla soluzione proposta. Non la conoscenza, ma l’impostazione mentale». Non da un individuo solo, peraltro. «Si passa davanti a più intervistatori di diverso profilo e anzianità. Ciascuno è portatore di un diverso punto di osservazione. La decisione viene presa collegialmente».

Saper comunicare fa la differenza

A contare parecchio, dulcis in fundo, è la maniera di esporre. Per gli stessi motivi già detti: perché sarà fondamentale anche nel lavoro di consulenza che, se accettati, si andrà a svolgere. «Il proprio compito non sarà quello di andare a dire al cliente ciò che è giusto o sbagliato, ma di condurlo, guidarlo nel percorso verso la soluzione. La capacità di comunicazione è fondamentale. Chi non la sa dimostrare in sede di colloquio, difficilmente sarà in grado di essere chiaro ed efficace dopo».

Junior e senior insieme: il successo è del team

Rimane il dubbio però, dinnanzi a tanti fallimenti, che semplicemente non sia un lavoro per giovani; e che la consulenza di un profilo senior, con l’esperienza pregressa, sia più puntuale e apprezzata. «Assolutamente no. E la ragione sta nel modo in cui il lavoro di consulenza è impostato. Il consulente non lavora mai da solo, ma in team. Ed è in team, dove si incontrano differenti esperienze e punti di vista, che si cresce. Il profilo junior impara del profilo senior, riceve feedback e cresce velocemente. È un ambiente molto esigente, ma anche collaborativo. Molte persone non riescono a capire come un giovane di 22 anni possa offrire valore aggiunto in una discussione con un manager senior. È vero che non ha 30 anni di esperienza alle spalle, ma è altrettanto vero che può prendere il telefono, contattare un esperto, reperire le informazioni che ancora non ha e applicarle alla situazione concreta in analisi. Più che un background, serve una mente, capace di porre le domande giuste ad acquisire i contenuti che, a causa della mancanza di esperienza, sul momento non ha».

La sfida con se stessi vale più dello stipendio

Ma, alla fine, è il lavoro o il colloquio di lavoro per cui non si risulta preparati? «Entrambi: il colloquio ricostruisce una situazione reale dell’attività di consulenza futura». Possibile che sia perché a spronare a provarci non è tanto la professione, di cui magari non si ha un’idea esattamente chiara, ma il miraggio dei soldi o la notorietà del gruppo di cui si entrerebbe a fare parte? «Di certo non è semplice comprendere che cosa si andrà a fare. Ma è proprio questo il bello e ciò di cui si è in cerca. La consulenza è un percorso di apprendimento e i soldi non sono la parte più allettante. Chi ambisce a uno stipendio da favola, ha altre strade da seguire. In MBB, cioè McKinsey, Boston Consulting Group e Bain, si guadagna un top salary; tuttavia, le principali società di Investment banking pagano ancora di più. Chi arriva qui è perché vuole crescere, diventare un global leader. Dunque, chi lo fa solo per lo stipendio è meglio che punti sull’Investment Banking. MBB offre piuttosto un percorso ricco di sfide, per un compenso di poco inferiore e comunque esorbitante».

Un lavoro dove bisogna divertirsi

Sicuri che nessuno dia false aspettative a nessuno? «Chi viene illuso è perché non ha compreso ciò che cerca per se stesso. Nella vita ci sono tante opportunità diverse per diventare qualcuno. Quelli che non sono capaci o non si divertono, non restano a lungo».

C’è sempre una seconda opportunità

Ma davvero un colloquio può essere così determinante e definire con tanta precisione un individuo? Se invece a esser decretata con un netto rifiuto fosse la capacità di confrontarsi con lo stress e l’emozione dell’esame di se stessi, ma in circostanze differenti si fosse in grado di lavorare a meraviglia? Non c’è chi insomma merita un’altra opportunità? «Ce l’avrà. C’è chi si ripresenta uno, due anni dopo, e magari in quel momento viene assunto. È verissimo, può capitare: il colloquio avviene in un tempo limitato e non può così accuratamente pronosticare chi sei. Ma quanto spesso accade, in ogni altro esame che affrontiamo nella nostra vita? Il metodo è questo e non c’è alternativa».

Perdere non è fallire: fa parte del gioco

E allora vietato sentirsi falliti. «Anche “perdere” fa parte del gioco, serve a sondare la propria determinazione. È soltanto la normalità ed è una cattiva idea, davvero cattiva, prenderla troppo sul serio. Ciò non significa che non si debba dare il massimo, ma che non c’è nessun giudizio di demerito nell’essere respinti. È qualcosa di comune, ciò che è straordinario è farcela».

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