Trimestrale Ubs e nuova crisi bancaria all’orizzonte. Sergio Rossi, UniFr: «Basta poco per scatenare la corsa agli sportelli»

Chiara De Carli

26 Aprile 2023 - 16:03

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I mercati altamente instabili possono causare una nuova crisi? Lo abbiamo chiesto al professore di macroeconomia e di politica monetaria nell’Università di Friburgo, Sergio Rossi.

Trimestrale Ubs e nuova crisi bancaria all'orizzonte. Sergio Rossi, UniFr: «Basta poco per scatenare la corsa agli sportelli»

Il bilancio del primo trimestre 2023, diffuso ieri da Ubs, non è piaciuto agli azionisti. La giornata di martedì si è conclusa, infatti, con il titolo della grande banca in discesa del 2,20% a CHF 17,80. La situazione non è tanto diversa questa mattina: ai primi scambi è in flessione dello 0,79% a CHF 17,66. Insomma, gli investitori non si sono lasciati convincere dalle parole dense di ottimismo pronunciate dal ceo di Ubs Sergio Ermotti.
A incidere sul sentiment, tuttavia, non è solo la preoccupazione che l’acquisizione di Credit Suisse comporta. Le trimestrali in arrivo dagli Usa da parte degli istituti bancari non lasciano tranquilli gli investitori. Tanto è vero che diversi esperti prevedono nuove piccole crisi nel medio termine.
Ne abbiamo parlato con Sergio Rossi, professore ordinario di macroeconomia e di politica monetaria nell’Università di Friburgo.

Professore, la trimestrale di Ubs ha mostrato un utile netto in calo del 52% a oltre $1 miliardo. A incidere sono stati soprattutto gli accantonamenti per il contenzioso ancora aperto in Usa. Come dobbiamo accogliere questo risultato?
«Si tratta di un risultato positivo ma che riflette una problematica tendenza al ribasso, anche alla luce dell’acquisizione forzata da parte di Ubs dell’insieme delle attività di Credit Suisse, comprese quelle maggiormente rischiose negli Stati Uniti e, più in generale, nei mercati finanziari anglosassoni. In altre parole, oltre al contenzioso ancora aperto negli Stati Uniti, è ragionevole aspettarsene altri, anche riguardo all’azzeramento, da parte della Finma, delle oramai famose obbligazioni AT1 emesse da Credit Suisse. Come se ciò non bastasse per suscitare timore, la volatilità dei mercati finanziari, come pure le varie incognite legate alle tensioni geopolitiche sul piano mondiale, soprattutto riguardo alla guerra in Ucraina e le sue conseguenze, lasciano intravedere dei risultati poco rassicuranti per i collaboratori e gli azionisti di Ubs nell’arco di un paio d’anni almeno».

Ermotti si è mostrato troppo ottimista?
«Ermotti ha dovuto mostrarsi ottimista per rassicurare i principali portatori di interesse nel processo di fusione tra Ubs e Credit Suisse, soprattutto affinché si interrompa la fuga dei correntisti dell’una come dell’altra banca. In realtà, il ceo si trova di fronte a un compito monumentale e dovrà risolvere problematiche di vario tipo, sotto la costante pressione dei mercati finanziari, che vogliono vedere dei risultati incoraggianti a breve termine, anche a discapito dell’interesse generale. In particolar modo mi riferisco alle persone che lavorano per l’una o l’altra di queste due banche di rilevanza sistemica sul piano globale. Penso che Ermotti si renderà conto, con il passare dei mesi, di avere tra le mani una “patata bollente” a seguito di un’operazione orchestrata troppo tardi e in modo alquanto superficiale dalle autorità svizzere».

Cosa possiamo aspettarci con l’acquisizione di Credit Suisse?


«Due sono i maggiori risultati attesi: una forte riduzione dell’occupazione nel colosso bancario che risulterà dall’acquisizione forzata di Credit Suisse – che non è affatto un’operazione commerciale, contrariamente a quanto dichiarò il Consiglio federale durante l’oramai famosa conferenza stampa del 19 marzo 2023 – e lo scorporo di una parte rilevante delle attività di investment banking di Credit Suisse, una volta terminata la sua acquisizione da parte di Ubs. Si prospetta tuttavia anche un terzo risultato: ossia una concentrazione del potere di Ubs nel mercato svizzero, che indurrà altre banche a diventare più grandi al fine di avere anch’esse una rilevanza sistemica, sapendo di poter così beneficiare di una garanzia di salvataggio da parte della Confederazione e della Banca nazionale svizzera. Ci sarà quindi la tendenza a una maggiore assunzione di rischi finanziari da parte di diverse banche in Svizzera, che comporterà una maggiore fragilità finanziaria di questi istituti. Ci sarà di conseguenza un forte aumento dell’instabilità finanziaria, con tutti i rischi che questo comporta per l’insieme del sistema economico nazionale».

La crisi bancaria a cui abbiamo assistito nelle scorse settimane ce la siamo lasciata alle spalle?
«L’apice di questa crisi è forse alle spalle, ma già si paventano numerosi altri scossoni, vista l’opacità e la complessità degli strumenti finanziari che ancora si trovano nei bilanci bancari. A cominciare da quello di Credit Suisse, che non è ancora stato sviscerato in maniera approfondita dopo l’annuncio del piano di salvataggio pubblico. Molti attori nei mercati della finanza globale sono oramai sensibili e reattivi anche al minimo “rumore” su questi mercati: una qualsiasi notizia, anche fasulla, che incute timore può scatenare una crisi di panico tale da fare scattare una corsa agli sportelli bancari. Una dinamica in grado di mettere in crisi un qualsiasi istituto bancario, anche quando è apparentemente solido, nella misura in cui rispetta i requisiti minimi di capitale esatti dai regolatori nazionali e dagli accordi internazionali».

Alcuni esperti dicono che la questione, nonostante il peggio sembra essere passato, è ancora aperta e che dovremmo attenderci delle nuove piccole crisi: è così?
«Temo che sia così, perché ci sono ancora degli scheletri nell’armadio di molte istituzioni finanziarie, tra cui diverse banche negli Stati Uniti e in Europa. Sarà determinante la strategia di politica monetaria delle principali banche centrali a riguardo della lotta contro il notevole rincaro dei prezzi nei mercati dei prodotti. È irragionevole credere che questo tipo di rincaro possa essere ridotto agendo tramite un continuo aumento dei tassi di interesse di riferimento da parte delle banche centrali. Così facendo, in realtà, gli istituti centrali contribuiscono a esacerbare il rincaro dei prezzi al consumo – in una spirale dannosa per tutti i portatori di interesse – dal momento che le banche aumentano gli interessi sui prestiti da loro concessi alle imprese, che a loro volta scaricheranno sui prezzi di vendita dei loro prodotti questi maggiori oneri bancari. Inoltre, in questo periodo, la politica monetaria restrittiva attuata dalle principali banche centrali aggrava la fragilità e l’instabilità finanziaria a livello sistemico, fungendo in tal modo da detonatore di una possibile prossima crisi finanziaria globale».

Cosa potrebbe ancora rompersi a causa dell’aumento dei tassi di interesse?
«Anzitutto, un volume rilevante di obbligazioni statali emesse negli anni in cui i tassi di interesse erano stati praticamente azzerati, se non negativi, subirà un ribasso notevole delle loro quotazioni nei mercati finanziari, causando elevate perdite – dunque dei problemi notevoli – per numerose istituzioni bancarie, ma anche per un numero importante di istituzioni finanziarie non-bancarie, tra cui pure i fondi pensione. Più a lungo termine, l’aumento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali farà cadere l’economia in una stagflazione, vale a dire che ci sarà un ristagno delle attività economiche, un forte calo del livello occupazionale, dunque una pressione al ribasso sui salari di molte persone che lavorano, senza purtuttavia invertire la traiettoria dell’evoluzione dei prezzi al consumo, il cui rialzo è dovuto a ben altri fattori. Ossia i ritardi nelle catene di approvvigionamento dovuti dapprima alla pandemia da Covid-19 e poi alla guerra in Ucraina, all’aumento dei margini di guadagno di svariate imprese, soprattutto nel ramo energetico. In questo segmento si osserva, in particolare, una grande speculazione nei mercati finanziari che aggrava la situazione a breve termine e aumenta l’incertezza per le imprese, che pertanto riducono gli investimenti, rallentando dunque la crescita economica a discapito dell’interesse generale».

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