INTERVISTA Più personale residente negli ospedali ticinesi, alla Scudo di Lugano è già realtà. Pezzoli: «Non assumiamo frontalieri da anni»

Chiara De Carli

14/11/2022

14/11/2022 - 16:15

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La pandemia da coronavirus ha posto sotto la lente di ingrandimento le problematiche della sanità ticinese, strettamente legata alle sorti dei dipendenti frontalieri. Settimana scorsa, un’interrogazione depositata al Consiglio di Stato, ha portato nuovamente a galla la questione.

INTERVISTA Più personale residente negli ospedali ticinesi, alla Scudo di Lugano è già realtà. Pezzoli: «Non assumiamo frontalieri da anni»

«Eoc: si può rafforzare la presenza di personale residente?», è il titolo dell’interrogazione depositata lo scorso 7 novembre Sabrina Gendotti (Ppd), Cristina Maderni (Plr), Samantha Bourgoin (Verdi), Fabrizio Garbani Nerini (Ps) e Sergio Morisoli (Udc), al Consiglio di Stato. Nel documento presentato, i cinque rappresentati politici chiedere all’Ente ospedaliero cantonale (Eoc) un rapporto sull’applicazione dell’art.8 della Legge sull’Eoc che sancisce la preferenza ai residenti e di individuare l’eventuale disponibilità, da parte del personale frontaliere, al trasferimento in Ticino.
Se da un lato il segretario del Vpod, Raul Ghisletta, settimana scorsa parlava di una proposta senza senso, dall’altro la Città di Lugano sperimenta già da diverso tempo questa linea nel servizio di cure a domicilio (Scudo) e nei suoi istituti sociali. «Si tratta di un’indicazione ricevuta a seguito del referendum “Prima i nostri” (2016) – puntualizza immediatamente il direttore di Scudo e degli Istituti sociali di Lugano (Lis), Paolo Pezzoli –. Per la legge di riferimento sull’assistenza e cura a domicilio dobbiamo dare priorità al personale indigeno e disoccupato. Quindi se oggigiorno volessimo assumere un frontaliere con un nuovo permesso, dovremmo dimostrare di non aver trovato l’equivalente sul territorio».

Direttore, ci spieghi meglio.
«Scudo da anni attinge al personale locale, non solo per un discorso di mercato del lavoro, ma anche per una questione di vicinanza. Così facendo, gli aspetti logistici di organizzazione dei turni sono più semplici: riusciamo a coprire con più facilità sia i picchetti notturni e che i sabati e le domeniche. Con questa linea possiamo dire che oggi abbiamo un numero esiguo di frontalieri e soprattutto, da ormai diverso tempo, non sperimentiamo più la situazione di dover assumere nuovo personale frontaliere».

Scudo conta poco più di 200 dipendenti, a quanto ammonta il numero di frontalieri?
«Per tornare con la memoria all’assunzione dell’ultimo frontaliere, dobbiamo tornare indietro di diversi anni. Attualmente sono circa una ventina e siamo contenti facciano parte della nostra squadra. La presenza dei frontalieri non va demonizzata soprattutto nel nostro settore: senza di loro chiudiamo baracca. D’altro canto è chiaro che si cerca di incentivare il mercato locale, facendo sforzi sulla formazione di infermieri e delle altre figure di supporto, come Oss e assistenti di cura. Facciamo molto anche per favorire gli stage, per far conoscere la realtà delle cure a domicilio».

Nel caso in cui a parità di merito optiate per assumere un infermiere frontaliere, viene posta come condizione il trasferimento?
«Lo facciamo piuttosto con i frontalieri già nostri collaboratori, dipendenti di Scudo da anni. Nella maggior parte dei casi, quando arriva un profilo da parte di un professionista frontaliere, decliniamo l’offerta. A meno che non abbia una specializzazione che qui non riusciamo a trovare: succede, ma devo dire molto raramente. Altrimenti si attinge a personale ex frontaliere: sono persone che hanno fatto le scuole qui e che poi hanno deciso di richiedere il permesso di tipo B».

Come reagiscono alla proposta?
«Per i giovani è più semplice perché non hanno impegni famigliari. Mentre se lo si chiede a una donna con figli è più difficile. Ad ogni modo, la vita da frontaliere non è così facile: implica un tempo di spostamento più lungo. Con il trasferimento in Ticino la vita può diventare meno stressante».

Perché funziona questa strategia?
«Abbiamo degli orari particolari: ai nostri collaboratori chiediamo di adattarsi alle necessità dei pazienti. Ciò implica l’adozione di orari spezzati che prevedono un ipotetico orario di inizio alle 7 di mattino e di fine alle 19. Per il frontaliere l’impegno è davvero molto alto.
Scudo è un ente parapubblico e finanziato dallo Stato e fin tanto che riesce ad attingere a personale residente è giusto che osservi queste regole. Certo, parliamo da una posizione privilegiata: essendo un centro urbano è più semplice fare conto su professionisti del luogo. Mentre nel caso di servizio di cure a domicilio o della casa anziani più discosta, si fa più fatica».

Durante la pandemia con la chiusura delle dogane avete avuto dei problemi con i dipendenti frontalieri?
«Abbiamo dovuto solo fornire delle soluzioni alberghiere per consentire ai nostri collaboratori di rimanere qua a dormire. Per il resto, non ne abbiamo avuti, se non per leggi diverse in caso di positività al coronavirus: l’Italia era molto più severa».

Nelle regioni di confine, intanto, lamentano che il Ticino ruba personale…
«Comprendo bene sia un problema, però bisogna considerare che tanti vengono qui anche per un arricchimento professionale. Nelle zone periferiche italiane non è semplice trovare sfide lavorative così interessanti, perché non tutti hanno la fortuna di lavorare in centri di eccellenza come - per esempio - l’ospedale Niguarda di Milano. Ci sono delle zone periferiche in cui l’aspetto lavorativo è meno stimolante rispetto a qualche struttura locale in Ticino».

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