INTERVISTA La neutralità svizzera non esiste più. Barone Adesi: «La globalizzazione ce la impedisce»

Sara Bracchetti

20/03/2022

10/11/2022 - 16:51

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Un concetto vecchio, spiega il professore emerito della facoltà di Scienze economiche dell’Usi, inadatto ai tempi moderni, dove il mondo globale abbatte le distanze e obbliga a prendere posizione.

INTERVISTA La neutralità svizzera non esiste più. Barone Adesi: «La globalizzazione ce la impedisce»

Vocifera chi conta, da pochi giorni a questa parte, che la guerra sia in un certo senso prossima alla fine: a patto che, cosa non scontata, l’Ucraina accetti di diventare Paese neutrale. Così avrebbe chiesto la Russia, secondo il Financial Times; una condizione, scritta assieme ad altre quattordici in una bozza di accordo di pace ancora sotto coperta, alla quale Kiev smentisce però di essere disposta a sottostare.
Non è forse un caso, né follia pura. Sotto qualche aspetto, è anzi una presa di coscienza moderna e ponderata: quella dell’impossibilità a esistere di un concetto forse ormai anacronistico, almeno nella sua accezione inizialmente concepita. Chiedetelo alla Svizzera, che formalmente ancora basa la sua politica estera sulla "neutralità permanente", ma poi si ritrova ad adottare sanzioni che un poco la snaturano; rinnegano la sua equidistanza dal conflitto, sollevando polemiche e perplessità legittime nell’opinione pubblica. Era possibile fare altrimenti, in un mondo moderno dove sembra diventato quantomeno complicato non prendere le parti di alcuno? No, risponde schietto Giovanni Barone Adesi, professore emerito della facoltà di Scienze economiche dell’Usi. Lo vieta un’economia globalizzata che di fatto, spiega, impedisce di restare isolati.

Professore, la Svizzera è davvero ancora un Paese neutrale?
«Dipende da quale definizione vogliamo dare al termine. Dal punto di vista strettamente legale e formale, lo status di neutralità implica di mantenere lo status quo e continuare le relazioni fra le parti come usuale; ma in questo caso ciò era impossibile, a meno di istituire una sorta di porto franco per la Russia».

In che senso?
«Buona parte delle materie prime russe sono commerciate attraverso la Confederazione, finanziate da banche basate in Svizzera. Le sanzioni però impediscono alla Russia di utilizzare dollari, valuta con cui commerciano in tempi normali anche attraverso la Svizzera. Per continuare le relazioni come in passato, la Russia avrebbe dovuto trasferire tutto il proprio commercio in franchi o altre monete non proibite; oppure, la Svizzera avrebbe dovuto violare le sanzioni. I Paesi occidentali hanno insistito affinché la Confederazione non venisse usata per aggirarle. La globalizzazione ci ha obbligato a prendere delle misure come quelle che la politica ha preso».

E l’altra definizione del termine?
«Dal punto di vista delle relazioni pubbliche, la Svizzera ha mantenuto invece la sua neutralità, dal momento che non ha inviato armi; ma certo il fatto di avere aderito alle sanzioni getta ombre sulla nostra neutralità».

Una neutralità ridimensionata, sminuita: possiamo dire così?
«Bisogna mettersi d’accordo sui termini ed esaminare i contesti. La realtà odierna è diversa da quella della Seconda guerra mondiale, quando la nostra neutralità era garantita dal fatto che le poche importazioni possibili erano contingentate e soggette a scrutinio attendo. Quella situazione non aveva impedito alla Svizzera di fare triangolazioni commerciali a proprio vantaggio con la Germania, sia pur limitate. Nel mondo globalizzato, invece, se non avessimo preso alcun provvedimento, tutto il commercio russo sarebbe passato dalla Svizzera. Ciò non sarebbe stato accettabile per i Paesi occidentali».

La storica neutralità elvetica non può dunque esistere, nel mondo attuale?
«Dev’essere adattata. Non possiamo più semplicemente pensare di isolarci e mantenere un’equidistanza. Dobbiamo prendere provvedimenti, che implicano limitazioni alla neutralità. Che scelte concrete abbiamo e avevamo, in alternativa? Continuare come nulla fosse e commerciare materie prime in Svizzera? Anche in questo caso, garantendo di fatto appoggio alla Russia, avremmo violato la neutralità, sia pur in senso opposto».

Insomma, non c’era scelta: quella che c’era era finta.
«Nessuna, se non quella di accettare condizionamenti alla neutralità, in un senso o nell’altro».

Quanto e come ha pesato, in passato, l’economia sulla scelta della neutralità e quanto pesa ora?
«Questa particolare forma di neutralità cui assistiamo oggi è stata dettata da condizioni economiche. Uno dei costi è che naturalmente ora la Svizzera non potrà più porsi come sede negoziale. Ci sono altri altri Paesi però che possono farlo».

Quali?
«In particolare la Cina, che è nella posizione di influenzare la Russia più di quanto possano i Paesi occidentali. D’altra parte, la pace in Europa orientale è proprio nel suo interesse: i cinesi hanno investito già molto in Ucraina».

La Svizzera non rischia di dare di sé un’immagine penalizzante: non possiamo più lavorare per la pace, non siamo più davvero neutrali, non siamo più un porto sicuro dove rifugiarsi?
«Certamente. Ma se volessimo restare quel Paese rifugio isolato dal mondo, dovremmo limitare in tempi non sospetti le nostre relazioni con le parti. Se consentiamo che buona parte del commercio delle materie prime mondiali passi dalla Svizzera in tempo di pace, in tempo di crisi dobbiamo decidere come regolare questo commercio. Ed è difficile farlo in un modo che metta tutti d’accordo».

Spingiamo un po’ più lontano chi confidava in noi: il beneficio che ne ricaviamo è sufficiente a coprire gli svantaggi?
«Bisogna distinguere i Paesi dai privati. Gli oligarchi russi sono soggetti alle sanzioni, è vero, ma ci sono molti russi che in Svizzera possono continuare a vivere normalmente, sicuri come sempre».

E i mercati? Come rispondono a questa stabilità ridimensionata, un po’ più precaria di un tempo?
«Tutti devono ora tener conto del fatto che la protezione offerta dalla neutralità svizzera è abbastanza limitata. Penso in particolare alla enormi riserve valutarie russe che sono state sequestrate dai Paesi occidentali. Un provvedimento che sarebbe stato più auspicabile prendere d’intesa con le Nazioni Unite, ma raggiungere un accordo unanime fra i Paesi membri del Consiglio di sicurezza era impossibile. Si è trattato di misure unilaterali, prese da Paesi occidentali a sostegno dell’Ucraina».

Adeguarsi ad esse in che posizione pone ora la Svizzera davanti all’Ue?
«In realtà, l’Europa si è adeguata alle decisioni americane. Alcuni Paesi, come Germania o Italia, hanno cercato di frenare su queste sanzioni, per via delle interconnessioni con la Russia dal punto di vista energetico. Certo oggi l’Ue è felice del fatto che la Svizzera l’abbia seguita, ma non credo sarebbe avvenuto senza le pressioni americane» .

Le nostre relazioni con l’Europa cambieranno?
«Nell’immediato, c’è stata una distensione e un miglioramento dei rapporti. Si è creato però un precedente e non posso dire quali conseguenze avrà, che cosa i nostri vicini potranno chiederci in futuro».

Tutta colpa della globalizzazione, che ha abbattuto frontiere e distanze?
«Resta fuori discussione che, nell’economia globale, essere neutrali diventa complicato: non si possono interrompere tutti i rapporti con i Paesi. Ma anche essere avversari è complicato. L’Europa aspetta di ricevere il gas russo e i russi vogliono essere pagati per questo: si apre una parentesi nell’ambito delle ostilità che consente un commercio più o meno consueto. Se è impossibile tagliare i rapporti fra avversari, possiamo immaginare quanto sia difficile essere neutrali».

La Svizzera rinuncerà mai, formalmente, alla neutralità di cui ha fatto fregio?
«A quel punto, non avrebbe senso stare fuori dall’Ue. Ma il popolo svizzero preferisce non aderire. La Svizzera cercherà di mantenere la sua neutralità, con i limiti e i condizionamenti imposti dai tempi e l’economia».

Perché continuare a dire di no all’Ue, se a volte sembra l’unica cosa da fare?
«Unica no. L’Europa è molto discussa in Svizzera, dove c’è una democrazia diretta. La base dell’opposizione non è un’avversione all’Europa in sé, ma ai suoi meccanismi decisionali. Qui tutto avviene al livello più vicino possibile al popolo: i comuni, i cantoni hanno molto potere. Già Berna sembra lontana. L’Ue non è una democrazia parlamentare: ha un consiglio dei primi ministri che decide tutto. Segue un modello centralizzato e verticistico, ispirato dalla tradizione dello Stato francese, che gli svizzeri non hanno mai digerito. Quando Napoleone invase la Svizzera, cercò di creare qui qualcosa di analogo, ma dopo pochi mesi abbandonò il tentativo. E non perché fosse particolarmente tenero».

Questione di mentalità, cultura? O il profilo è ancora più elevato?
«Io parlerei di incompatibilità filosofica. È il modo in cui si guarda ai rapporti fra cittadini e Stato e fra i vari livelli di autorità pubblica. Qui la gente è molto legata alle proprie autonomie locali».

Scelga un aggettivo: la presa di posizione della Svizzera com’è stata?
«Sofferta. Ma, per i motivi esposti, era necessario mettere dei paletti alla nostra attività con la Russia. Sul dove e come metterli, avevamo qualche grado di libertà. Il Governo federale ha deciso che la cosa più semplice ed efficace era riprendere le sanzioni dell’Europa».

Questa guerra che cosa porterà, alla Svizzera?
«Una forte impennata dei prezzi, un’inflazione in arrivo a causa dell’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime, un rallentamento della crescita reale dell’economia».

Ne valeva la pena?
«La Svizzera aveva due opzioni. La scelta storica sarebbe stata ignorare quello che avveniva di fuori; ma la pressione sul franco sarebbe diventata troppo forte e avrebbe portato la recessione dell’industria svizzera e una perdita di competitività. Governo e Bns cercheranno di mantenere il cambio con l’euro. Dovranno importare l’inflazione in Svizzera e affrontare problemi di equilibrio sociale, adeguamento delle pensioni, dei salari».

Per i cittadini alle prese con il rialzo dei prezzi che cosa si può fare?
«Molto poco. O manteniamo il potere d’acquisto del franco o accettiamo l’inflazione. Non ci sono rimedi miracolosi. In situazioni di particolare disagio, il Governo ha certo i mezzi per intervenire a favore di fasce particolarmente esposte. Penso per esempio agli autotrasportatori».

La gente si domanda perché la benzina costa come nel 2008, se il prezzo al barile è molto più basso. Come spiegarlo?
«Si sono create delle strozzature nel sistema di distribuzione. Negli ultimi anni, l’Europa soprattutto ha denunciato i danni ecologici dovuti all’uso dei carburanti fossili. I governi e l’opinione pubblica hanno fatto pressione sulle aziende perché procedessero a una dismissione globale. Se non si investe, diminuisce la capacità produttiva. E se improvvisamente la domanda aumenta, per compensare ciò che non arriva dalla Russia, ecco che il prezzo da pagare è più alto».

Giusto così?
«Una politica più ragionevole, se avesse voluto scoraggiare il consumo di combustibili fossili, avrebbe dovuto tassarlo molto, senza prendere provvedimenti che ne limitassero la produzione. Sono state invece minacciatele banche, che hanno smesso di finanziare l’industria del petrolio e del carbone, per non essere chiamate poi a pagare il prezzo dei danni ecologici eventualmente causati dai propri clienti. Gli idealisti puntano a un’economia basata sull’elettricità, ma servono investimenti massicci e tempo. Non siamo assolutamente in grado di sostenere la svolta verde in tempi brevi».

Nel frattempo, un eventuale taglio delle accise per aiutare gli autotrasportatori non andrebbe a vantaggio di tutti?
«Non credo sia possibile adottare provvedimenti generali. Il costo dell’inflazione qualcuno deve pagarlo. Possiamo redistribuirlo, non possiamo eliminarlo. Una politica che non consente l’inflazione diventa recessiva, a meno che l’apprezzamento del franco avvenga non in tempi rapidi ma nell’ambito di diversi anni. Quando la Bns intervenne a definire la soglia minima, il cambio fu fissato a 1,20. Oggi il rapporto franco euro è di uno a uno, ma l’industria svizzera ha avuto diversi anni per adeguarsi. Quello che non possiamo invece permetterci è un apprezzamento del franco del 50% in un mese».

Crede che la Bns interverrà?
«La Bns sta intervenendo tutti i giorni, o il franco si sarebbe già rafforzato parecchio di più. La Svizzera ha i conti in ordine e deve cercare di mantenerli tali».

C’è la possibilità che riporti il cambio a 1,20?
«Ne sarei sorpreso. Penso lascerà che arrivi l’inflazione. Il franco somiglierà più all’euro e la Bns dovrà adeguerà a questa realtà il suo credo tradizionale sulla politica di conservazione del potere di acquisto del franco».

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