Secondo il responsabile Cna, ospite dell’evento organizzato da Money.it con Parlamento Europeo e Centergros, il 27 novembre a Bologna, la strada è un ritorno al passato e a un prodotto robusto, da riadattare invece di buttare.
Parola d’ordine: sostenibilità. Altrimenti detta, secondo la definizione ufficiale e condivisa, capacità di «soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere quelli della generazione futura». Termine ormai abusato, ripetuto da tempo come un fregio, ma non qui: in un settore carico al proposito di grosse sfide, che per natura propria nega ciò che nel frattempo è diventato obiettivo dell’Onu, inserito nell’Agenda 2030 verso cui gli Stati provano a muoversi al passo. Perché la moda è passeggera, fatta di abitudini che cambiano in fretta, e si gettano via senza rimorso assieme a capi non più attuali, o non abbastanza. Meglio non sfigurare, pazienza il pianeta. Davvero, dunque, è possibile la conciliazione, di qualche sorta almeno?
La legislazione europea che verrà
Davvero: al punto che il tema si guadagna l’attenzione dell’Europa, pronta a legiferare per rendere sostenibile ogni produzione, tessile inclusa. Dalla raccolta differenziata dei rifiuti alla trasparenza di una filiera che possa documentare approcci produttivi virtuosi, con l’obiettivo multiplo di ridurre l’impatto ambientale e anche quello sociale. Un’ambizione che chiama tutti in causa, ciascuno a dire la propria, ma in un senso unico: quello di un futuro fatto di rispetto e maggior benessere, osserva il responsabile Cna Federmoda Antonio Franceschini, ospite dell’evento del 27 novembre a Bologna organizzato da Money.it in collaborazione con Parlamento europeo e Centergross. "La strategia dell’UE per un tessile sostenibile e circolare" sarà il filo conduttore di un evento in cui ci si siederà al tavolo, nel tardo pomeriggio, per discutere che cosa e come, aprendo spiragli di luce a dispetto delle apparenze più scontate.
Rendere la moda sostenibile: Franceschini, non è una contraddizione in termini? La moda è per definizione qualcosa di passeggero, da consumare e lasciarsi indietro.
«È vero, può sembrare una contraddizione. Eppure parlare di moda sostenibile ha un senso, se ci riferiamo a un prodotto di qualità, durevole e riutilizzabile. A questo proposito, esistono diverse esperienze interessanti da prendere a riferimento. Inoltre, sostenibilità è un termine che riguarda tutto il percorso di produzione».
Nel ciclo di produzione, qual è l’anello debole: quello su cui c’è più bisogno di fermare l’attenzione?
«Dipende da dove guardiamo. Dal punto di vista ambientale, per esempio, negli ultimi anni l’Europa ha fatto grossi passi in avanti. Se pensamo a tutta la filiera, ci sono senza dubbio attività che richiedono attenzione, ma ormai i più grossi problemi sono scontati solo da alcuni Paesi. L’Est asiatico, per esempio, dove è possibile ancora vedere corsi d’acqua colorati. O pensiamo alla sabbiatura a mano e alle problematiche legate alla salute che si porta con sé. Poi c’è la questione sociale e i diritti dei lavoratori. Un tema che si lega soprattutto al fast fashion, con la sua produzione a basso costo che spesso rinnega i diritti umani. C’è però un altro aspetto, che tende a passare in secondo piano rispetto ai primi due: la distribuzione del valore economico».
A che cosa allude?
«A una migliore distribuzione della ricchezza nella filiera. Il guadagno non può essere così preponderante per le griffe più note, che certo hanno costi importanti, ma anche ricavi che non sono poi ripartiti in modo equo».
Richiamare i grandi a una maggiore saggezza: davvero possibile? Come riuscirci?
«La politica e le istituzioni possono avere un ruolo nell’incentivare questi comportamenti. Anche la tracciabilità e il tanto auspicato "Made in", che finora l’Europa non è riuscita a realizzare, possono avere un peso. Credo però che un fattore significativo sia l’informazione verso i consumatori, così che siano consapevoli delle proprie scelte. È bene capiscano che dietro a un prodotto che magari costa di più ci sono persone e valori. Indossare un capo può anche voler dire calpestare i diritti di qualcuno, per non parlare dei problemi di salute. Sia la politica sia i consumatori possono sostenere le aziende virtuose, a patto che siano trasparenti e certificate, abbiano dimostrato una certa etica. Lo Stato, per esempio, può concedere agevolazioni fiscali o accessi ai bandi».
Di fatto, però, c’è un problema di costi da non sottovalutare. Come superarlo?
«Anche questo rientra nel discorso del consumo consapevole. Si va verso un consumo più attento».
Qual è il vantaggio?
«Spendere qualcosa di più garantisce una maggiore durata del prodotto, che può essere adattato e riciclato. Ovviamente, con i redditi medio-bassi tutto diventa più complicato. Si compra quel che si può. Ma se il concetto è quello degli anni Cinquante e Sessanta, quando si acquistavano prodotti di qualità destinati a resistere al tempo, tutto diventa possibile. Un bel cappotto si riadattava. Si tratta spendere di più per acquistare meglio. Qualcosa che si comincia a vedere oggi, anche nell’alimentazione: una volta meno a cena fuori, ma al ristorante piuttosto che al fast food».
La soluzione, dunque, è una sorta di ritorno al passato?
«Proprio così. La reinterpretazione del capo è qualcosa intorno a cui c’è una lunga tradizione, specie in Italia. Purtroppo, è così: la sostenibilità costa. Ma dobbiamo andare in questa direzione, per più ragioni. Migliorare le condizioni di lavoro di certi Paesi, alzare la qualità della vita, ma anche dare attenzione alla salute. I problemi dermatologici di chi indossa intimo trattato con coloranti sono ormai noti».
E il capo di seconda mano?
«È un discorso differente. Attenzione, però. Alcuni Paesi dell’Africa hanno cominciato a vietare l’importazione dell’usato secondo questa modalità usa-e-getta. Crea inquinamento: ci sono cataste di vestiario abbandonate e impressionanti a vedersi».
È la fine della fast fashion?
«Noi lo auspichiamo, inteso nel senso di quella parte più deleteria di una filiera che fa danni all’ambiente e alle persone».
C’è anche un problema di imagine, non trova?
«Senza dubbio. Oltre a danneggiare il mondo, non va a vantaggio della qualità. Purtroppo, però, a volte il consumatore internazionale fa ancora qualche fatica a capire e accettare le differenze di prezzo».
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