INTERVISTA Contagi in aumento, Giorgio Merlani: «Quel Covid non c’è più, l’abbiamo sconfitto»

Sara Bracchetti

12/10/2022

10/11/2022 - 17:02

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Il medico cantonale Giorgio Merlani invita a cambiare paradigma: i numeri odierni non hanno più lo stesso significato del 2020. «Del Covid ci siamo liberati, adesso è un virus con cui dobbiamo imparare a convivere».

INTERVISTA Contagi in aumento, Giorgio Merlani: «Quel Covid non c'è più, l'abbiamo sconfitto»

Attenzione a dare i numeri: anche le scienze perfette diventano spurie e inaffidabili, quando la realtà perde le certezze consuete. In un mondo stravolto dall’esperienza del Covid, niente più può essere come prima: neanche le cifre, le statistiche e le percentuali che raccontano di una pandemia che ritorna puntuale, mentre si affaccia l’autunno con il suo carico di promesse allarmanti. Mentre in una settimana i contagi superano quota 25mila, mentre il timore di nuova disperazione e morte cresce parallelo, ecco che però c’è chi invita ad adottare unità di misura differenti: niente può essere più come prima, è vero e qui lo si ripete, ma in senso finalmente ottimistico. «Dobbiamo cambiare parametro di giudizio - invita il medico cantonale Giorgio Merlani - La malattia che conosciamo oggi non è e non sarà più quella del 2020».

Dottore, perché il Covid ci fa ancora paura?
«Paura è una parola grossa. Il Covid ci ha mantenuti attenti, occupati, in allerta. Se ci stiamo chiedendo se succederà ancora la stessa cosa, la mia risposta è no, posto che fare previsioni è impossibile: tutto può cambiare da un momento all’altro. Il virus potrebbe mutare in maniera clamorosa e riavvolgere il nastro, far ricominciare tutto da capo». 

Arriva l’autunno e torna il virus. In passato è stato così, i numeri attuali sembrano confermarlo. Ѐ davvero la stagione a far da volano al Covid?
«Senza dubbio i virus respiratori si approfittano della stagione fredda: per via degli spazi chiusi dove i contatti sono più facili, per la secchezza dell’aria, la fragilità delle mucose. Anche l’estate, però, ci ha mostrato che i contagi possono proliferare. A fare da volano al Covid direi che è una complicità di due fattori: la genetica del virus, che ne favorisce la diffusione anche all’aperto se diventa molto contagioso, e la stagione fredda, che sicuramente agevola».

C’è qualcosa che il numero di contagi odierni ci può dire, su come andrà nel prosieguo? Che cosa dovremmo aspettarci?
«Ѐ presto per dirlo. Un aumento dei contagi ce lo aspettavamo, per via della stagione e dell’assenza di misure. Quello che invece un po’ sorprende sono i casi in ospedale. Ci aspettavamo un incremento di malati, ma forse non che andassero a gravare in questo modo sulle strutture ospedaliere».

Come spiegarlo?
«Difficile dare una risposta certa. Di sicuro ha contribuito una combinazione di elementi. Non va dimenticato, peraltro, che non possiamo sapere esattamente che cosa stia succedendo davvero sul territorio. Una volta venivano testati tutti al primo sintomo. Ora si testa solo chi lo vuole. Il numero di casi positivi non riflette la realtà e la situazione negli ospedali. Inoltre, è passato un certo tempo dall’ultimo ciclo di vaccinazioni. Ѐ venuta progressivamente meno la protezione del vaccino; il quale, sia inteso, non serve a evitare il contagio, ma a far sì che il decorso non sia grave. Dunque gli anziani e le fasce più deboli della popolazione si trovano a ricorrere agli ospedali. Non è più però come un tempo, quando si finiva nelle cure intense, con trombi e nei casi peggiori in fin di vita. I ricoveri odierni non sono assolutamente paragonabili a quelli del passato».

Eppure l’allarmismo continua. I giornali recano traccia ogni giorno dell’andamento dei contagi. Va bene così o forse bisognerebbe ridimensionare l’attenzione?
«Bisognerebbe cambiare paradigma. I numeri non sono gli stessi di prima e quello che significano oggi non è lo stesso che significavano due anni fa. Seguire i numeri è importante per le autorità, così da capire in che direzione si sta andando e decidere eventuali contromisure. Per il cittadino, non credo proprio. Piuttosto il cittadino dovrebbe seguire le raccomandazioni e fare attenzione quando è necessario».

Contromisure: a che cosa si riferisce? Soprattutto, ne serviranno ancora?
«Io non credo e spero che non vi sarà più la necessità di prenderne. Limitazioni di libertà, movimento, obbligo di mascherine all’aperto o di vaccino non ritengo serviranno, salvo dovesse cambiare il virus e diventare ingestibile. Se così fosse, quello che mi posso attendere è una limitazione dei contatti all’indispensabile e l’invito a usare le mascherine negli spazi chiusi. Non penso vi saranno obblighi formali di legge. La mia resta comunque una previsione: e le previsioni sono fatte per essere smentite. Quel che voglio dire, però, è che usare il metro di misura del passato per regolare il futuro è concettualmente sbagliato. Lo facciamo, perché non abbiamo altra possibilità, ma i parametri dovrebbero essere aggiornati per affrontare meglio ciò che ci aspetta».

Il vaccino invece rientra nelle contromisure?  
«Posso dire con certezza che il vaccino ha una efficacia minima sulla riduzione del rischio di infezione, quasi nulla sulla riduzione del rischio di trasmissione della malattia. Non è più una questione di salute pubblica, da fare perché impedisce la diffusione del virus. Ѐ una questione di salute individuale: serve a proteggere la persona vaccinata e a evitare un decorso grave. Importante, quindi, che si vaccinino i più vulnerabili».

Meglio farne un altro o bastano i primi tre?
«Alle persone fragili può garantire un decorso più lieve. Non ci sono raccomandazioni forti rivolte alla popolazione, se non per le persone sopra i 65 anni, chi ha fra i 16 e i 64 anni e ha problemi di salute e anche chi, per ovvi motivi, è a contatto con questi ultimi».

Lei lo consiglierebbe?
«Faccio un esempio: io non l’ho ancora fatto e ho 54 anni. Lo farò, per via del mio lavoro, a contatto intenso con gli operatori della sanità. Se fossi una persona di 50 anni, farei altre valutazioni di opportunità. Lo consiglio ai fragili. L’obbligo non c’è: semmai, a spingerci a vaccinarci potrebbe essere una ragione di tipo sociale e professionale». 

A Como, l’ospedale Sant’Anna ha temporaneamente sospeso le visite ai degenti causa Covid. Qui?
«Le decisioni delle altre autorità possono essere dettate da situazioni e considerazioni particolari. Anche noi, in alcuni momenti, abbiamo introdotto dei divieti».

Giusto così? O forse era il caso di cercare una linea di condotta comune?
«Sotto qualche aspetto è accaduto, per esempio per quanto riguarda il certificato vaccinale. Nel caso della Svizzera, dopo una prima fase in cui hanno deciso i Cantoni si è optato per un coordinamento a livello federale. In Italia è accaduto il contrario: in una prima fase sono state prese decisioni a livello nazionale, poi sono subentrate le regioni e i colori a seconda dello stato epidemiologico. Il Regno Unito ha avuto inizialmente un approccio liberale, pur di non bloccare l’economia, poi ha dovuto frenare bruscamente. Ogni scelta ha ragioni diverse. Potrebbe anche essere dettata dalla maggiore o minore disponibilità di strutture e letti per le cure intense. Credo che ogni Stato abbia fatto il meglio che poteva». 

Dottore, del Covid ci libereremo mai? O dovremo, semplicemente, imparare a conviverci?
«Io penso che del Covid ci libereremo; anzi, in un certo senso ci siamo già liberati. Non ci libereremo del Sars virus, che si aggiungerà ai virus comunemente in circolazione, come quello dell’influenza o il rinovirus. Il Covid è la sindrome, così come l’abbiamo conosciuta nel marzo del 2020: quella malattia non la vedremo più. Il Sars è il virus, che molto probabilmente non sparirà mai. La scomparsa definitiva del Covid, invece, avverrà quando tutti avremo fatto nuovi anticorpi. Forse non già quest’anno, ma questa sembra essere la direzione».

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